Quella di Dina è la storia è di un lungo silenzio durato sessant’anni anni. È il dicembre del 1944 quando viene arrestata insieme al padre e al fratello, detenuta nel carcere di San Giovanni in Monte e infine deportata nel lager di Bolzano. Dina ha 18 anni, sul petto il triangolo rosso delle detenute politiche, numero 7998. Impiegata nella produzione di cuscinetti a sfera in una galleria ferroviaria chiusa ai due lati e sorvegliata dalle SS, viene liberata il 1 maggio del 1945. Il viaggio di ritorno è, come per molti suoi compagni, lungo e rocambolesco: da Bolzano a Verona in treno e poi in auto, all’esterno, seduta sul parafango; poi in camion, un camion militare americano, fino a Bologna, poi di nuovo in treno e infine in bicicletta, sul cannone di un conoscente, fino alla frazione di Amola, casa. Del padre e del fratello – un vecchio antifascista che “tutte le volte che veniva su Benito Mussolini lo prendevano e lo cacciavano in galera” e un ragazzino di 17 anni partigiano della Brigata Bolero Garibaldi – non saprà più nulla fino all’agosto del 1945, quando un testimone tornato dai campi racconterà che sono stati uccisi nell’eccidio di Sabbiuno del 14 dicembre ’44, i loro corpi buttati giù dai calanchi. Del padre non hanno trovato niente, il fratello è stato riconosciuto da un pezzetto di stoffa.
Dina non racconta la sua storia fino al 2004, quando viene intervistata per l’Archivio Audiovisivo della Memoria del Comune di Bolzano. La sua voce, ricca di inflessioni della lingua materna, fatalmente libera anche la voce della nipote, Leila Marzocchi, in un simbolico passaggio del testimone: Dina ricorda i giorni che ha tenuto lontani da sé per tutta la vita, Leila si interroga sul silenzio dei testimoni, a partire dal proprio. Un silenzio che fin da bambina le ha impedito di chiedere, investigare, conoscere la storia dell’amata zia Dina. Per superarlo, ricostruire le pagine più buia della nostra Storia, l’autrice si affida a tre guide fondamentali, Simon Wiesenthal, Edith Bruck, che firma la postfazione, e Liliana Segre, che illuminano un percorso ingombro di domande senza risposta, paure, tabù, sensi di colpa e di inadeguatezza.
“Il silenzio sulla Shoah è più nocivo e più doloroso di quanto lo siano il testimoniare e lo scriverne, cosa che faccio da oltre sessant’anni. Tacere è veleno per se stessi, raccontare è un dovere morale, una terapia... Anche per questo si deve gratitudine a Leila Marzocchi e alla sua mano parlante”
(Edith Bruck)
Leila Marzocchi è illustratrice per l’infanzia e per il teatro, scenografa, fumettista pubblicata in Giappone Francia, Stati Uniti dagli anni ’90.
Tra i suoi titoli: Luna, L’Enigma, La ballata di Hambone (su testi di Igort), Dieci elegie per un ossobuco, Il diario del verme del pino. Nel 2007 riceve il prestigioso premio Lo Straniero e inizia la collaborazione col Teatro delle Albe presso cui realizza la mostra Harpage, il manifesto per L’Avaro di Molière, l’immagine per il Festival di Santarcangelo 41 e il cortometraggio Gandersheim, in Rosvita libro-dvd di Luca Sossella editore.
Il suo capolavoro, Niger, saga in sei albi che racconta, con la tecnica dello scratching – una lama fa emergere la luce dal nero della pagina – la vita di un bosco e del suo popolo di animali parlanti, ha ricevuto il Gran Premio della Giuria al Festival di Lucca Comics 2017. La sua ultima opera, Il mistero del ramo suicida (Oblomov 2018), è stata serializzata su “linus”. Collabora con la rivista “Internazionale” e con “La Lettura” del Corriere della Sera.